Santi dell'inverno e fuochi propiziatori della bella stagione nel mondo contadino lariano. Ritratto della memoria per la Mappa di comunità della Vallassina e dell’Alta Brianza  

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L'incanto di Sant'Antonio a Barni L'incanto di Sant'Antonio a Barni Giulia Caminada

Santi dell'inverno e fuochi propiziatori della bella stagione nel mondo contadino lariano

Ritratto della memoria per la Mappa di comunità della Vallassina e dell’Alta Brianza  

Giulia Caminada

 

 

C’erano ancora le stelle quando le osterie erano già piene di contadini intabarrati, intenti a contare i soldi e a impacchettare sementi. Già nel buio del primo mattino la festa viveva il suo aspetto più suggestivo coi paisàn ‘contadini’ e i sumenzàtt ‘mercanti di semi’. Più tardi sarebbero arrivati gli altri ambulanti, con ogni tipo di mercanzia, seguiti dai fironàtt, inghirlandati da collane di castagne, che avrebbero fatto abbaiare i cani dei saltimbanchi. Sui banchi di torroni brillavano i lumi accesi al vento, talvolta caldo di falsa primavera. Ma così, quando non c’era la neve, non sembrava neppure la festa di Sant’Antonio. Nelle osterie, fin dal giorno prima, cuocevano gran pentoloni di büsècca e fojöö ‘trippa’, detta dei sumenzàtt, il cibo tradizionale della festa di Sant’Antonio Abate. E brillavano anche i ceri della chiesa di Santa Maria degli Angeli, già odorosa d’incenso, dove il pane e il sale per le bestie protette dal Santo erano già preparati per la benedizione, così come le reliquie erano pronte per il bacio dei fedeli. Intanto la campanella di Sant’Antonio, dal suono fioco fioco, nascosta in un comignolo che fungeva da campanile, sul tetto della chiesa, richiamava i fedeli  a raccolta. Il 17 gennaio è la festa di Sant’Antonio Abate, sant’Antòni del purcèll ‘sant’Antonio del maiale’ una delle feste pi importanti del mondo contadino lariano. E a Erba, in provincia di Como, sin dal tardo Medio Evo, - prima in località San Maurizio poi in scim’Èrba ‘in cima a Erba’, nel piazzale di Villa Amalia - la féra da sant’Antòni ‘la fiera di sant’Antonio’ era un appuntamento annuale importante. Soprattutto un tempo, quando era famosa come uno dei più importanti mercati di semi del contado milanese. Il Pian d’Erba, e soprattutto le località di Bindella e di Incasate, era noto per le pregiate sementi di cipolle rosse, molto ricercate sui mercati cittadini per la loro bontà e il gustosissimo sapore. La féra toccò i suoi momenti di splendore a partire dal 1879, in seguito all’arrivo del primo treno di Milano; bande e fanfare chiamate dai paesi vicini suonavano per tutto il giorno che era proclamato di festa solenne. Durava allora circa due settimane, ma i giorni migliori per visitarla erano il 17 e il 18 gennaio, festa di santa Liberata, che prevedeva anche riti e cerimoniali speciali riservati alle donne. Nel Novecento fecero la loro comparsa, tra le bancarelle, gli spettacoli circensi con i nani, i clown, la Donna Cannone, le tigri, i leoni e talvolta persino gli elefanti, diventando subito una caratteristica tradizionale della fiera. La festa di Sant’Antonio era molto sentita nel mondo contadino lariano, tant’è che è una delle feste che si è mantenuta più a lungo, fino a tempi a noi vicini. Protettore degli animali e consolatore dell’uomo nelle sue tribolazioni, lo si rappresentò sia in veste di eremita che in veste di abate mitrato, in abiti vescovili. Suoi attributi principali sono il bastone a tau, il porcellino, il fuoco, il campanellino, sovente disturbato dal demonio che lo tenta. Era ritenuto “il grande mercante di neve” perché la sua ricorrenza, il 17 gennaio, cadeva nel periodo più nevoso dell’anno (Sant’Antoni de la barba bianca in rari i ann che la ghe manca ‘Sant’Antonio dalla barba bianca sono rari gli anni che gli manca’).Quella di Erba era la festa più importante dell’Erbese, mantenutasi fino ad oggi con i riti religiosi, la fiera e le giostre. Sin da piccola la Fiera di Sant’Antonio a Erba è sempre stata un appuntamento importante per tutta la mia famiglia che si recava da una zia che dalla Vallassina si era trasferita in città, per fare Sant’Antonio insieme e andare alla fiera. Il giorno di Sant’Antonio, un tempo ovunque festivo, a Barni venivano portati gli animali, cavalli e muli soprattutto, sulla piazza del paese per essere benedetti: si diceva che la protezione del Santo li avrebbe guardati dalla malattia ma anche dagli scherzi del fulét ‘diavolo’ che li disturbava quando stavano nella stalla, facendoli deperire. Da metà Novecento è tradizione fare l’incant ‘l’incanto’, una vendita di prodotti al miglior offerente. Le mercanzie vengono portate in chiesa, sotto la statua del santo, nei giorni precedenti la festa e l’incantatore, poi, il giorno della festa sul sagrato della chiesa procede all’incanto. È tradizione incantare prodotti della terra, artigianali e animali da cortile. Fra le varie cose canestri, rastrelli, burro, arance, la testa del maiale. Il ricavato è devoluto alla parrocchia. In questa giornata, chi poteva permetterselo mangiava la polent’uncia ‘polenta unta’, un piatto a base di farina di granoturco, formaggio magro e burro fuso. La tradizione si mantiene tuttora, mantenuta viva dalla Parrocchia con l’incant e dall’unica famiglia contadina rimasta in paese che, avendo tuttora una stalla con molte mucche, festeggia il Santo invitando a mangiare la polenta unta più di un centinaio di abitanti del paese. La neve, che impediva quasi sempre ogni lavoro, favoriva la festa. Gli anziani ricordano che il 16 gennaio, un tempo, favén i fooch ‘facevano i fuochi’, il falò. Per gli uomini segnava l’inizio di una sosta dal lavoro, obbligata dalla gran neve: quei giorni di riposo operoso venivano dedicati a fabbricare o a riparare, nelle stalle o in cucina, gerle, cavagne, slitte, manici, attrezzi da lavoro. Nei mesi di dicembre e gennaio per molti c’era davvero poco da fare e in molti paesi della Vallassina, ma anche della Brianza, si verificava una vera e propria emigrazione volta alla ricerca di qualche lavoro stagionale. I santi erano onnipresenti nella vita contadina e a volte basta un’immagine per confermare un’usanza o una credenza ormai dimenticata. È facile trovare la statuetta del Santo o la sua immagine dipinta su qualche parete o appesa sulla porta delle stalle. La festa di Sant’Antonio si è mantenuta tuttora anche a Casate, frazione di Bellagio. Il piatto contadino tipico di questo periodo era il toch ‘tocco’, una polenta a base di farina di mais nostrana, acqua e sale, a cui si aggiungono burro e formaggio magro giovane. Viene mangiato seduti intorno al paiolo. Un cucchiaio di legno a testa con cui raccogliere il toch, sono le dita stesse che lo accompagnano alla bocca dopo averlo appallottolato. Trascorse le feste natalizie e anche la ricorrenza di Sant’Antonio, il periodo che seguiva, sino alla Quaresima, era tempo di Carnevale anche se, di fatto, lo si festeggiava negli ultimi tre giorni, dalla domenica al martedì grasso nel territorio posto sotto la diocesi di Como e dal martedì al sabato in quello posto sotto la diocesi di Milano. Si uccideva il maiale cresciuto nella stalla, ci si preparava alla fine dell’inverno per riprendere i lavori nei campi bruciando a fine gennaio, la Giubiàna nell’area brianzola e il Ginée o Ginér ‘gennaio’, in Vallassina. In vari luoghi del territorio lariano si festeggiava la Giubiana (probabilmente da giöbia ‘giovedì’) l’ultimo giovedì di gennaio. In quel giorno, grandi e piccini giravano per le vie del paese picchiando oggetti metallici col viso sporco di cenere. Alla sera venivano accesi falò nelle piazze e nei campi attorno all’abitato, allo scopo di cacciare insetti dannosi alle coltivazioni. In Brianza, la Giubiana finì col diventare un fantoccio femminile bruciato su una catasta di legna. Nel mondo contadino, quella sera il pasto era un po’ più abbondante del solito. La tradizione del giorno della Giubiana andò perdendosi nei territori comaschi alla fine dell’Ottocento, anche se è sopravvissuta in località brianzole quali Canzo, Cantù, Albavilla, Guanzate. È rimasta invece più a lungo la tradizione di festeggiare, l’ultimo giorno di gennaio, la «cacciata di gennaio» soprattutto da parte dei ragazzi. A Lasnigo e a Valbrona, in Vallassina, per esempio, la tradizione è ancora viva. Si costruiva un fantoccio imbottito di paglia, il ginée, portandolo in giro per le vie dell’abitato e infine bruciandolo su una catasta di legna appositamente predisposta. Il rogo del ginée era comune a molti luoghi, soprattutto dove l’inverno era più lungo. Ancora all’arrivo delle prime diligenze, a Barni alcuni anziani ricordano che da bambini portavano una vecchia valigia di cartone alla fermata del pullman che, puntualmente, arrivava e suonava convinto di richiamare qualcuno che dovesse partire e che si era momentaneamente assentato. I ragazzi in questo modo scherzoso salutavano la partenza di gennaio con allegre risate. Anche l’ultimo giorno di gennaio il pasto era più sostanzioso. Fino a fine Novecento era ancora in uso in molte famiglie, a Barni, mangiare la panna montata a neve con le castagne. Un tempo la panna veniva messa a raffreddare in un secchio, nella neve, per poi essere montarla più facilmente con un elastico frustino fatto di rametti di betulla. Del resto gli ultimi tre giorni di gennaio sono i dì de la mèrla ‘giorni della merla’, che la tradizione vuole come i più freddi dell’anno. La leggenda dice che un tempo il merlo era bianco e che un anno molto freddo, negli ultimi tre giorni di gennaio, la merla per scaldare i suoi pulcini li portò dentro un comignolo da dove le piume presero l’attuale coloritura. La vita invernale era per il mondo contadino difficile da affrontare. I contadini dovevano convivere col freddo, il buio, la neve e i campi spogli. L’inverno, per i contadini, era compreso fra il 25 novembre (Santa Caterina) e il 3 febbraio (San Biagio, invocato contro il mal di gola), quando il giorno inizia visibilmente ad allungarsi. Il Natale non segna l’inizio dell’inverno ma un suo culmine, tant’è che la tradizione vuole che da Natale le giornate inizino ad allungarsi, anche se di poco: A Natàl un sbacc d’un gall, a Pasqueta un’uréta, a sant’Antoni un’ura e un grogn ‘A Natale uno sbadiglio di un gallo, all’Epifania un’oretta, a Sant’Antonio un’ora e un grogn’ stava ad indicare che dal 25 dicembre al 17 gennaio si guadagnava più di un’ora di luce. Il grogn è un pane che faceva il Boggio, un panettiere di Asso, e corrisponde a un quarto di michetta. In effetti è facile costatare che a metà gennaio si guadagna un quarto d’ora di sole la mattina (arriva prima) e un quarto d’ora di sole il pomeriggio (tramonta più tardi). Santa Caterina era uno dei primi santi mercanti di neve (Per santa Caterina i vacch a la cassina ‘Per santa Caterina le vacche in stalla) e segnava l’inizio dell’Avvento. In successione i mercanti di neve erano Sant’Andrea (30 novembre), Sant’Ambrogio (7 dicembre), la Madonna (8 dicembre): Se per Sant’Andrea nun ghe saroo per Sant’Ambros nun mancaroo ‘Se per Sant’Andrea non ci sarò per Sant’Ambrogio non mancherò’. L’espressione l’invernu l’è una buca che màngia ‘l’invero è una bocca che mangia’ stava ad indicare proprio il costo del combustibile per riscaldarsi, le scorte che si esaurivano mentre il nuovo raccolto era solo una speranza ansiosa che poteva essere messo a rischio da condizioni metereologiche avverse. Le attività lavorative del mese di gennaio erano ancora molto limitate a causa delle temperature basse e delle giornate molto brevi. Il rigore del clima costringeva a una tregua le attività svolte all’esterno mentre l’operosità contadina continuava la sua attività negli unici due ambienti riscaldati della casa, la cucina e la stalla. Qui, nelle lunghe serate invernali, la veglia costituiva un momento di socializzazione, legata anche al fatto che non c’erano candele da consumare, le donne facendo la calza e gli uomini riparando qualche attrezzo. Due proverbi lasciano trapelare l’attesa e l’impazienza per le giornate più calde: San Sebastian cun la viola in man ‘San Sebastiano (il 20 gennaio) con la viola in mano’ e Sant’Agnesa la lusérta in de la scesa ‘Per Sant’Agnese (il 21 gennaio) la lucertola nella siepe’ ad indicare che intorno al 20 di gennaio era possibile trovare le prime viole nei prati e facevano la loro comparsa le prime lucertole. San Sebastiano era il santo protettore dei cavalli e più in generale di tutti gli animali. Era anche invocato per scongiurare la peste. Sant’Agnese era venerata soprattutto come protettrice delle ragazze da marito. Ecco che allora il nuovo anno si apriva pieno di speranze. L’inverno era ancora vivo sulle membra ma nel cuore c’era la certezza che stesse passando e la speranza che la nuova primavera rigenerasse la vita. I fuochi propiziatori cacciavano l’inverno e aprivano alla primavera, bruciavano l’anno vecchio, con quanto di negativo aveva portato con sé, e si propiziavano il nuovo anno.   Mappa di comunità della Vallassina e dell’Alta Brianza. L’Istituto Comprensivo “G. Segantini” di Asso (Co) sta lavorando alla realizzazione di una Mappa di comunità del territorio. Le mappe di comunità sono uno strumento con cui gli abitanti di un determinato luogo rappresentano il patrimonio, il paesaggio, i saperi in cui si riconoscono e che desiderano trasmettere alle nuove generazioni. Consistono in una rappresentazione cartografica o in qualsiasi altro prodotto od elaborato in cui la comunità si può identificare. Perché valorizzare il proprio territorio significa condividere un progetto di qualità della vita per chi lo abita e per chi lo attraversa come visitatore. Perché fare tutto questo insieme aiuta a sentirsi protagonisti della propria storia.

#MappaVAB   #iosostengo

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